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La transformazione economica e politica dell’Europa Centrale ed orientale: l’esperienza ceca

Pagine Italiane, 20. 12. 2017

Due settimane fa la Repubblica Ceca ha celebrato il 28mo anniversario della caduta del comunismo. Lo sottolineo perché so che gli studenti qui sono nati diversi anni dopo questo momento storico. Per me però non è preistoria, è parte della mia vita.  

Lasciatemi dire alcune cose a questo riguardo, in qualità di persona che da quando è caduto il comunismo è stata a capo della trasformazione politica ed economica del paese – prima come Ministro delle Finanze, poi come Primo Ministro, come Presidente del Parlamento, come Presidente della Repubblica ceca, come fondatore e presidente di un partito politico a destra del centro. Ci sono, ritengo, alcune specifiche interessanti del nostro caso che vanno menzionate:

- La Repubblica ceca è geograficamente e culturalmente il Paese più occidentale di tutti i paesi centrali e orientali d’Europa

- È stato l’unico paese politicamente ed economicamente sviluppato prima dell’epoca comunista

Abbiamo trascorso gli ultimi 13 anni nell’Unione europea, che troviamo essere un altro costrutto problematico, creato artificialmente, basato su idee aprioristiche e costruttiviste.

- Volevamo, dopo mezzo secolo di comunismo e della nostra appartenenza involontaria all’impero sovietico, diventare una nazione libera, indipendente e sovrana. Questo scopo è stato raggiunto rapidamente, ma la nostra situazione ha cominciato gradualmente a cambiare come conseguenza dell’appartenenza all’Ue.

Quello che abbiamo attraversato dopo la caduta del comunismo non fu solo un cambiamento economico. Fu una trasformazione fondamentale di tutto il sistema politico, economico e sociale.

     Fu un processo unico e irripetibile.

1. Eravamo e siamo convinti della necessità di una liquidazione totale e incondizionata del sistema politico ed economico comunista.  Volevamo un cambiamento sistemico fondamentale, non solo un cambiamento di regime. Proclamammo esplicitamente che volevamo il capitalismo. Rifiutammo risolutamente tutti I SOGNI RIGUARDO ALLE COSIDDETTE “TERZE VIE” ( o  una convergenza possibile e desiderabile di sistemi economici e politici esistenti): Questa nostra ambizione non fu compresa completamente e non fu accolta del tutto positivamente in Europa occidentale a quell’epoca. L’Europa aveva già cominciato a spostarsi verso un nuovo sistema che adesso vediamo in un forma molto più sviluppata.

2. Sapevamo che un cambiamento sistemico profondo non è un mero esercizio di economia applicata. Era una cosa molto reale. Non era una partita a scacchi. Era un processo che riguardava milioni di persone con i loro sogni e paure, con i loro interessi , pregiudizi, ambizioni, destini. Inoltre non avevamo alcun manuale preparato in anticipo che ci dicesse come fare. L’intero processo di trasformazione fu necessariamente un misto ad hoc di costruttivismo ed evoluzione spontanea. Tutte le raccomandazioni teoriche sulla sequenza ottimale delle  misure di riforma risultarono presto inapplicabili.

3. Vorrei ripetere che volevamo liberarci del sistema comunista. L’imperativo era di evitare una non-trasformazione, un movimento lento verso nessun posto, una vittoria dello status quo.   Qualcuno di voi potrebbe aver sentito parlare di una disputa fra “gradualismo” e “shock-therapy”. Non abbiamo ritenuto che il gradualismo fosse una strategia di riforma fattibile (in una società politicamente libera). Non volevamo scioccare nessuno. Al contrario, avevamo bisogno del massimo di collaborazione con i cittadini del nostro paese, avevamo bisogno del loro sostegno.

4. Ritenemmo che il progetto di trasformazione doveva essere nostro, basato sulle nostre idee e sulle nostre realtà. Cercammo di trovare la nostra “ via ceca” e di dare alla gente la possibilità di essere i protagonisti del gioco, non solo degli osservatori passivi. Non ci consideravamo rappresentanti delle istituzioni internazionali e non sentivamo alcun bisogno di compiacerli. Io ho in mente in particolare il FMI e la Banca Mondiale.

5. Consideravamo interconnesse e indivisibili sia le riforme economiche sia quelle politiche. Era impossibile separarle, alla cinese, in Europa, e particolarmente nell’Europa centrale. Il concetto stesso di gradualismo era (ed è) basato sulla fiducia nella possibilità di una orchestrazione dettagliata delle riforme. Non era possibile  fermare i processi iniziati spontaneamente. Sarebbe stato possibile solo in assenza di libertà politiche, il che non era il nostro caso. Aprimmo immediatamente l’accesso alla politica e organizzammo le elezioni libere appena sei mesi dopo la rivoluzione di velluto. Nel mio Paese si era formata una democrazia piena già da quel preciso momento.

6. Naturalmente c’erano dei passi obbligati e delle “regole” economiche che noi seguimmo e rispettammo.

- Iniziò immediatamente una ristrutturazione radicale delle istituzioni governative – alcune furono abolite, il ruolo di altre fu cambiato in maniera sostanziosa,

- Fu fatta rapidamente una radicale liberalizzazione, deregolamentazione e de-welfarizzazione dell’economia;

- Eravamo consapevoli dell’importanza enorme della stabilità macroeconomica per il successo della trasformazione. Per questo motivo, mettemmo in atto delle politiche monetarie fiscali molto caute. Il nostro tasso di inflazione era molto più basso che in tutti gli altri Paesi in via di trasformazione;

- Sapevamo che sarebbe stato un errore tragico (specialmente per una economia piccola) liberalizzare i prezzi (dopo 40 anni di prezzi controllati, inflessibili, rigidi) senza al contempo liberalizzare il commercio estero. Facemmo entrambi contemporaneamente.

- Qualche giorno prima della liberalizzazione dei prezzi e del commercio estero eseguimmo una sostanziosa svalutazione della corona cecoslovacca che rispecchiava grosso modo il tasso di cambio praticato sul mercato nero. Ciò – dalla sera alla mattina – ripristinò l’equilibrio economico.

- Noi, da veri liberali, volevamo introdurre un cambio flessibile appena possibile, ma allo stesso tempo capivamo il ruolo che poteva giocare il cambio fisso come àncora nel momento in cui tutto il resto era in rapido movimento. Questa si rivelò essere una buona idea.

1. La parte decisiva del processo di trasformazione fu la privatizzazione. Il nostro  approccio si basava su certe idee non-intuitive, che sono tuttora – particolarmente in Occidente – insufficientemente comprese:

- ci demmo come meta la privatizzazione di praticamente tutte le aziende di proprietà statale esistenti, non solo l’allestimento di nuove aziende su “pascoli verdi”;

- a causa della mancanza di capitale domestico (che non esisteva nell’epoca comunista ) e a causa del numero limitatissimo di investitori stranieri seri, le aziende dovettero essere privatizzate a un prezzo basso. Questa idea ci condusse al noto concetto di “privatizzazione per mezzo di voucher”, che ebbe un ruolo importante nel nostro programma di privatizzazione. Questa fu una nostra invenzione;

- la privatizzazione veloce fu considerata il migliore contributo alla necessaria ristrutturazione delle aziende non-funzionanti, inefficienti, obsolete che ereditammo dall’era comunista (non ritenevamo lo Stato in grado di ristrutturare le aziende).

Fin dall’inizio, i riformatori cechi sapevano di dover privatizzare l’economia che avevano ereditato non appena possibile e il più velocemente possibile. Non ci interessava granché la dimensione del gettito della privatizzazione (e questo risultò difficile da accettare per i consiglieri, i consulenti e le banche di investimento occidentali, che avevano uno scopo diverso – massimizzare le proprie di entrate).

1. La trasformazione è un processo, che inevitabilmente richiede tempo. Esso presenta molti aspetti e dimensioni, ma noi capivamo che occorre introdurre la massa critica delle misure di riforma in un momento. Nel nostro caso questo si riuscì a compiere nei primi anni Novanta. Nel 1994, cinque anni dopo la Rivoluzione di Velluto, fummo accettati – come primo paese post-comunista – come stato membro dell’OSCE, di questo club costituito dai paesi industriali più sviluppati. Fu un momento altamente simbolico per noi.

2. Nella seconda metà degli anni Novanta cominciammo il nostro avvicinamento all’UE. Fui io come Primo Ministro che nel gennaio 1966 portai la domanda a Roma – nelle mani del Primo Ministro italiano Dini, perché l’Italia aveva in quel momento la Presidenza di turno dell’Ue. Fui io che nel 2003 come Presidente della Repubblica Ceca firmai ad Atene il Trattato di Accessione all’Ue.  Il nostro far parte dell’Ue ha – come ogni altra cosa – dei costi e dei benefici. A voler essere sincero, non siamo sicuri che i benefici siano stati superiori ai costi, il che, naturalmente non è un’affermazione politicamente corretta. Il Sig. Juncker non sarebbe felice di sentirla. Ma siamo buoni amici ed egli sa benissimo che è questa la mia posizione nel  lungo termine. 

Indubbiamente viviamo in un mondo diverso e molto migliore oggi di 28 anni fa ma siamo – da molti punti di vista – delusi. L’inizio fu promettente. Adesso le cose non sono più così rosee. Nell’ultimo paio d’anni siamo passati dalle politiche standard ai patti post-democratici, da partiti politici autentici e ben definiti dal punto di vista ideologico a progetti politici ad hoc, dalla democrazia alla post-democrazia, dai liberi mercati ai mercati altamente regolamentati.

Come ho detto, privatizzammo, liberalizzammo,  deregolamentammo e de-sussidiammo la rigida economia comunista, radicalmente e senza ulteriori ritardi. Però nell’ultima decennio abbiamo iniziato un processo all’inverso. La nostra economia è più regolata e sussidiata (e armonizzata e standardizzata) adesso di quanto lo fosse un decennio o due fa. L’indebolimento crescentemente distruttivo dello stato-nazione da parte dell’Unione europea ( e della sua ideologia) e il movimento relativamente veloce verso la governance globale hanno minato alla base la nostra sovranità.

Non è facile capire bene la versione contemporanea del progetto di integrazione europeo. Il progetto di integrazione originario – meno ambizioso e meno dannoso – di amichevole collaborazione fra stati sovrani europei, che ebbe origine negli Anni Cinquanta, è stato trasformato negli ultimi due-tre decenni in un progetto centralizzato, burocratico ed eccessivamente standardizzato e armonizzato mirante all’unificazione dell’intero continente. Noi vi ravvisiamo molte delle caratteristiche del sistema che abbandonammo 28 anni fa. A mio parere la differenza metodologica fra i termini “integrazione” e “unificazione” è assolutamente cruciale. 

Secondo noi stare nell’Ue ci riporta dal capitalismo a una forma moderna di socialismo europeo, a una società organizzata amministrativamente. Ciò potrà sembrare troppo ruvido ma giustifico sempre questa mia posizione dicendo che vivere sotto il comunismo ci ha aguzzato la vista. Non tutti in Europa hanno avuto una simile esperienza.

L’attuale ideologia prevalente in Ue mina  i pilastri tradizionali e storicamente provati della società europea:

- lo Stato – privilegiando le regioni rispetto agli stati e attaccando lo stato-nazione come fosse la base del nazionalismo (e quindi delle guerre);

- la famiglia – promuovendo il genderismo e il femminismo, proponendo ogni sorta di partenariato e matrimoni fra persone dello stesso sesso, gettando dubbi sull’orientamento naturale e storicamente provato degli uomini e delle donne;

l’uomo - si cerca di creare un nuovo uomo europeo, homo bruxellarum, mescolando artificialmente i cittadini dei paesi europei e - particolarmente di recente – promuovendo e organizzando l’immigrazione in massa di individui senza radici europee in Europa.

Il nostro passato comunista ci spinge a difendere questi pilastri storici della società europea. Senza di essi non ci aspetta alcun futuro buono.

Grazie della vostra attenzione.

Lezione al MIREES, Scuola di Scienze Politiche, Universitá di Bologna, Sede di Forli, 1 dicembre 2017.

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