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Discorso tenuto dal presidente della Repubblica ceca all’Europarlamento

Pagine Italiane, 19. 2. 2009

Illustre Presidente, Membri del Parlamento Europeo, Signore e Signori,

Prima di tutto, vorrei ringraziarvi per la possibilità che mi è stata data di parlare qui, al Parlamento Europeo, in una delle istituzioni chiave dell'Unione europea. Ci sono già stato tante volte, ma non ho mai avuto l'opportunità di parlare in occasione di una sessione plenaria. Perciò apprezzo particolarmente l’invito che mi è stato rivolto.

La presenza di rappresentati eletti dei 27 paesi, che hanno un ampio spettro di opinioni politiche e punti di vista, rende questo uditorio così unico e così rivoluzionario come è, d’altronde, l’esperimento della stessa Unione europea. Per più di un secolo si è provato a migliorare il processo decisionale all’interno dell’Europa, spostando una parte significativa delle scelte politiche dai singoli Stati alle istituzioni comunitarie. 

Sono giunto qua dalla capitale della Repubblica Ceca, Praga, dal cuore dello Stato ceco, da uno dei posti più importanti dove il pensiero, la cultura e la civiltà europea sono comparse e dove si sono sviluppate. Arrivo come rappresentante della nazione ceca, che è sempre stata, nelle sue varie forme, parte della storia europea, che spesso ha partecipato in modo diretto e significativo al formarsi della storia dell’Europa, e che desidera continuare a farlo anche oggi.

Sono passati nove anni da quando un Presidente della Repubblica Ceca ha parlato in questo luogo. L’ultimo è stato il mio predecessore, Vaclav Havel, quattro anni prima dalla nostra adesione all'Unione europea. Qualche settimana fa, il Primo Ministro Ceco, Mirek Topolanek, ha tenuto un suo discorso in questa sede, in qualità di leader del paese posto alla presidenza del Consiglio dell'Ue. Il suo discorso ha affrontato sia le questioni prioritarie per la presidenza ceca, sia i problemi attuali affrontati dai paesi dell'Ue.

Questo mi permette di concentrare il mio intervento più sulle questioni di natura generale, e – a prima vista –  forse meno drammatiche, che sulla soluzione della presente crisi economica, sul conflitto ucraino-russo riguardante il gas o sulla situazione a Gaza, nonostante creda che tali questioni siano di straordinaria importanza per il futuro sviluppo del progetto di integrazione dell’Europa.

Tra meno di tre mesi, la Repubblica Ceca potrà celebrare il quinto anniversario della sua adesione all'Ue.  Lo faremo con dignità. Celebreremo questo evento come un paese che – a differenza  degli altri nuovi membri – non si sente frustrato dalle attese non soddisfatte della nostra appartenenza all'Ue. Quanto accaduto non mi sorprende e, per questo, vi è una spiegazione razionale. Le nostre attese erano realistiche. Sapevamo che stavamo entrando in una comunità creata e costituita da uomini in carne e ossa. Sapevamo che non si trattava di una costruzione utopistica, messa insieme senza tenere conto degli autentici interessi, delle visioni, delle opinioni, delle idee degli esseri umani. Sia quegli interessi, sia quelle idee possono essere ritrovati in tutta l'Ue e non può essere diversamente. 

Abbiamo interpretato la nostra adesione all'Ue, da una parte come una conferma del fatto che fortunatamente ce l'avevamo fatta, abbastanza velocemente (in meno di quindici anni dal crollo del comunismo),  a diventare di nuovo un “normale” paese europeo; dall'altra parte, abbiamo creduto (e lo pensiamo ancora) di poter cogliere l'opportunità di partecipare attivamente al processo di integrazione europea, vedendoci la possibilità di beneficiare di una Europa già molto bene integrata e – nello stesso tempo – di influenzare questo processo secondo il nostro punto di vista. Ci sentiamo responsabili dello sviluppo dell'Unione europea ed è con questo senso di responsabilità che accediamo alla presidenza del Consiglio dell'Unione europea. Credo che i primi sei mesi di presidenza ceca hanno dimostrato in modo convincente il nostro approccio responsabile. 

In questa occasione, vorrei ripetere ancora una volta in modo chiaro e ad alta voce – per quanti di voi che ancora non lo sanno o non lo vogliono sapere – la mia convinzione: per noi non c'è e non c'è mai stata nessuna alternativa all'appartenenza all'Unione europea, e nel nostro paese non c'è nessuna forza politica rilevante che vorrebbe o potrebbe indebolire tale convinzione. Perciò siamo rimasti colpiti dai continui attacchi che abbiamo dovuto affrontare; degli attacchi basati su delle infondate premesse, secondo le quali i cechi cercherebbero di introdurre un altro tipo di progetto di integrazione rispetto a quello a cui hanno aderito cinque anni fa. Tutto questo non è vero.

I cittadini della Repubblica Ceca sentono che l’integrazione europea realizza una missione e uno scopo importanti e necessari, che possono essere riassunti nel seguente modo:

• eliminare le inutili – sono controproducenti per la libertà dell'uomo e per la sua prosperità – barriere alla libera circolazione di persone, beni, servizi, idee, filosofie politiche, punti di vista sul mondo, modelli culturali e comportamenti che si sono formati nel corso dei secoli, grazie ai vari sviluppi storici dei singoli Stati europei;

• cooperare nella fornitura, esistente a livello continentale, di beni pubblici, intendendo con ciò quei progetti che non possono essere sviluppati efficacemente attraverso negoziazioni bilaterali fra due (o più) paesi europei vicini.

Gli sforzi per implementare questi due obiettivi – eliminare le barriere e selezionare razionalmente quei problemi che dovrebbero essere risolti a livello comunitario – non sono e forse non saranno mai compiuti. Varie barriere e ostacoli rimangono ancora, e le decisioni prese a Bruxelles sono certamente troppe rispetto al numero ottimale. Senza dubbio sono più numerose di quanto desidererebbero le persone residenti nei singoli Stati membri. Voi, membri del Parlamento europeo, siete sicuramente più che consapevoli di questo fatto. Perciò la domanda che voglio farvi è molto retorica: siete veramente convinti che ogni volta che votate, state decidendo su qualcosa che per forza deve essere deciso qui, in questa aula e non in un luogo più vicino ai cittadini, ad esempio nei singoli Stati membri?

Nei discorsi “politicamente corretti” che stiamo ascoltando in questi giorni, ci vengono spesso illustrati gli altri possibili effetti positivi dell'integrazione europea, che sono, però, di minore e secondaria importanza. Di più, questi discorsi rispecchiano il più delle volte le ambizioni dei politici di professione e delle persone a essi legate, non l'interesse di un cittadino qualsiasi di un paese europeo.

Quando ho detto che l'appartenenza all'Unione europea non ha avuto e non ha tuttora nessuna alternativa, ho espresso solo la metà di quello che deve essere detto. L'altra – logica – metà della mia affermazione è che i metodi e le forme dell'integrazione europea, al contrario, hanno un ampio numero di possibili e legittime varianti, come è stato dimostrato negli ultimi 50 anni. La fine della storia non esiste. Affermando che lo status quo, ovvero la presente forma istituzionale dell'Ue, è un dogma incontestabile, si commette uno sbaglio che sfortunatamente si sta diffondendo a grande velocità, e che rappresenta non solo la contraddizione del pensiero razionale ma contraddice anche tutta la storia di due millenni di civilizzazione europea. Lo stesso errore riguarda l’accettazione a priori, e perciò ugualmente criticabile, che esista uno e un solo possibile e corretto futuro dell'integrazione europea, ovvero l’“ever-closer Union”: l’avanzamento verso un più profondo accentramento delle scelte politiche degli Stati membri.

Né il presente status quo, né un'accettazione della continua assunzione di poteri da parte dell’Ue è una benedizione, non sono – o non dovrebbero essere – dei dogmi per i cittadini europei e democratici. L’applicazione di tali punti di vista, propugnati da quelli che si considerano – per usare una frase di un famoso scrittore ceco, Milan Kundera – “i proprietari delle chiavi” dell’integrazione europea, è inaccettabile.

Inoltre, è chiaro che qualsiasi accordo istituzionale riguardante l’Unione europea non è un obiettivo in se stesso, ma uno strumento per realizzare i veri scopi dell’Ue. Questi sono niente altro che la libertà umana e un sistema economico che porti prosperità. Tale sistema è l'economia di mercato.

Questo sarebbe certamente il desiderio dei cittadini di tutti gli Stati membri. Anche ora, e per i venti anni che hanno seguito il crollo del comunismo, ho ripetutamente testimoniato che determinati sentimenti e paure sono più forti tra coloro che hanno passato una grande parte del ventesimo secolo senza libertà, e hanno combattuto contro una economia inefficiente, centralmente pianificata e amministrata dallo Stato. 

Non sorprende nessuno che queste persone siano più sensibili e dubbiose verso quei fenomeni e quelle tendenze che potrebbero condurre in altre direzioni rispetto alla libertà e alla prosperità. I cittadini della Repubblica Ceca sono fra coloro di cui sto parlando.

L’attuale sistema decisionale dell’Unione europea è diverso da quello di una classica democrazia parlamentare, testata e forgiata dalla storia. In un normale sistema parlamentare, una parte dei deputati sostiene il governo mentre un'altra si pone all'opposizione. Nel Parlamento europeo, non è affatto così. Qui una solo opzione viene promossa e quelli che osano proporre un'opinione diversa sono etichettati come nemici dell'integrazione. Non tanto tempo fa, nella nostra parte d'Europa vivevamo in un sistema politico che non concedeva nessun alternativa, e pertanto anche nessuna opposizione parlamentare. È stato tramite questa esperienza che abbiamo imparato un’amara lezione: con l’assenza di una opposizione, non c’è la libertà. Perciò le idee politiche discordanti devono esistere.

E non solo queste. La relazione tra un cittadino di uno Stato membro e un rappresentante dell'Unione non è la relazione standard tra un elettore e un eletto, suo rappresentante. C'è una distanza (non solo nel senso geografico della parola) tra i cittadini e i loro rappresentanti, che è più grande di ciò che avviene all'interno degli Stati membri. Questa distanza viene molto spesso descritta come un deficit democratico, una perdita di responsabilità, un processo decisionale da parte di non eletti – ma selezionati –, come la burocratizzazione del processo decisionale, ecc. La proposta di cambiare lo stato attuale delle cose – inclusa nella respinta Costituzione europea o nel, non tanto differente, Trattato di Lisbona – avrebbe reso questo problema ancora più grande.

Siccome non esiste il popolo europeo – né lo Stato europeo – tale problema non può essere nemmeno risolto con il rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo. Questo rafforzamento, al contrario, renderebbe il problema più grave e porterebbe a una ancora più grande distanza tra i cittadini dei paesi europei e le istituzioni comunitarie. La soluzione non consisterà nell’aggiungere carburante all’attuale melting pot dell'integrazione europea, né nell'abolire il ruolo degli Stati membri nel nome di una nuova multiculturale e multinazionale società civile europea. Nel corso degli anni, tutti questi tentativi sono falliti, perché non riflettevano uno sviluppo spontaneo della storia.

Io temo che i tentativi per accelerare e rendere più stretta l'integrazione, spostando il luogo dove prendere le decisioni sulle vite dei cittadini dai paesi membri al livello comunitario, potrebbe dare dei risultati che metteranno a rischio tutti i successi conseguiti in Europa nell'ultima metà di secolo. Non possiamo sottovalutare le paure dei cittadini residenti nei numerosi paesi membri, i quali temono che sui loro problemi si decida altrove e senza di loro, e che le possibilità d'influenzare queste decisioni siano e saranno molto limitate.

Finora, l'Unione europea ha fatto registrare molti successi, in parte grazie al fatto che il voto di ogni paese membro aveva lo stesso “peso”, e quindi non poteva essere ignorato. Non dobbiamo permettere che i cittadini degli Stati membri vivano le loro vite con una sensazione di rassegnazione verso un progetto che non sentono loro, che si sta sviluppando diversamente da come avrebbero voluto, che sono costretti solamente ad accettarlo così come è. Molto presto e molto facilmente si potrebbe tornare ai tempi che speravamo rimanessero storia.

Tutto ciò è strettamente legato alla questione della prosperità. Dobbiamo dirlo apertamente: il sistema economico attuale dell'Unione europea è un sistema di un mercato “abolito”, un sistema di un'economia dal permanente forte controllo centrale. Anche se la storia ha dimostrato in modo chiaro che non ci sono alternative concrete, ci siamo trovati di nuovo a camminare sulla stessa strada. Questo è il risultato di un aumento continuo sia del grado di scelte prese dai governi, sia del voler imbrigliare la spontaneità dei processi di mercato. Nei mesi recenti, questa tendenza è stata ulteriormente rafforzata dall’interpretazione sbagliata delle cause dell'attuale crisi economica e finanziaria, come se fosse stata causata dal libero mercato, mentre in realtà è il contrario – l'ha prodotta l’intervento della politica sul mercato. È di nuovo necessario accennare all'esperienza storica fatta dalla nostra parte d'Europa e alla lezione che ne abbiamo tratto.

Tanti di voi certamente conoscono il nome di un economista francese, Frederic Bastiat, e la sua famosa Petizione dei Fabbricanti di Candele, la quale è diventata un famoso studio illustrante l'assurdità degli interventi pubblici nell'economia. Il 14 novembre 2008, la Commissione europea ha approvato una vera, non fittizia, Petizione di Bastiat dei Fabbricanti di Candele e ha imposto una tariffa del 66 per cento sulle candele importate dalla Cina. Non avrei mai creduto che eventi raccontati in un saggio di 160 anni fa potessero diventare realtà, ma questo è avvenuto. Un effetto inevitabile dell'implementazione estensiva di questo tipo di misure in Europa porterà a un rallentamento dell’Europa, se non a un completo stop della crescita economica. L'unica soluzione è la liberalizzazione e la deregolamentazione dell'economia europea.

Lo dico perché sento una grande responsabilità verso il prosperoso e democratico futuro dell'Europa. Ho cercato di ricordarvi gli elementari principi sui quali è stata fondata la civiltà europea centinaia o migliaia di anni fa; principi, la validità dei quali non viene scalfita dal tempo, che sono universali e perciò dovrebbero essere seguiti anche nell'attuale Unione europea. Sono convinto che i cittadini dei singoli paesi membri desiderino la libertà, la democrazia e la ricchezza economica.

In questo momento, il compito più importante è assicurare una libera discussione su questi problemi, non permetterla sarebbe un attacco alla vera idea di integrazione europea. Noi abbiamo sempre creduto che discutere di questioni così importanti, venire ascoltati, difendere i diritti di tutti gli altri a presentare un'opinione diversa da quella imperante – anche se non siamo d'accordo – costituisce il cuore della democrazia che ci è stata rifiutata per più di quattro decenni. Noi, che abbiamo vissuto un'esperienza senza volerla, la quale ci ha insegnato che un libero scambio di opinioni e di idee è una condizione basilare per una democrazia sana, abbiamo la speranza che questa condizione verrà mantenuta e rispettata anche nel futuro. Questa è un'opportunità ed è l'unico metodo per rendere l'Unione europea più libera, più democratica e più prospera.

Václav Klaus, Europarlamento, Bruxelles, 19 febbraio 2009 

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